«Pensare all’aria aperta, camminando, saltando, salendo, danzando, preferibilmente su monti solitari o sulla riva del mare, laddove sono le vie stesse a farsi meditabonde» (Friedrich Nietzsche).
Nietzsche lo ribadisce spesso: niente pensiero vivo senza passo vivo. Nessun filosofo probabilmente ha dedicato al camminare così tanto tempo, tanti sforzi e tanta importanza. Nietzsche ha camminato per tutta la vita, prima di crollare, poi di sopravvivere immobile, quasi muto, su una sedia a rotelle, per i suoi ultimi dieci anni. Ha camminato fino a quando ha pensato, scritto, vissuto veramente. Le sue passeggiate erano lunghe, privilegiavano le salite, i dislivelli, i panorami. Ha percorso sia i laghi svizzeri, le Dolomiti, le scogliere del Mediterraneo, sia le città italiane e francesi. Più di ogni altro ha ripetuto, fino al suo ultimo scintillio, in Ecce Homo, di «non fidarsi dei pensieri che non sono nati all’aria aperta e in movimento…che non sono una festa anche per i muscoli». Per quale ragione? Si tratta soltanto della sua fisiologia, di una sua idiosincrasia personale?
Se così fosse, basterebbe vedere in Nietzsche il rappresentante perfetto di quella famiglia di pensatori che prendono la natura come ufficio. Persone che hanno un bisogno vitale di muoversi per riflettere. Come molti filosofi antichi, come Thomas Hobbes che aveva, si dice, un calamaio nel pomo del suo bastone per annotare le idee che gli venivano camminando. Come Montaigne, Rousseau, Kant, Thoreau e tanti altri, pensatori di strada più che topi di biblioteca? E allora? Una questione di gusto, di temperamento? Stranezze da filosofi?
Forse no, c’è un motivo più alto. Lo scopriremo…