Sono giorni cupi questi. Di passione.
Venti di guerra soffiano ormai da cinquanta giorni ininterrottamente. Immagini di morte hanno riempito i nostri occhi, accartocciato il nostro cuore in un mare di tristezza e d’impotenza. Forse in certi momenti percepiamo di esserne saturi e quasi ci abituiamo ai bollettini di guerra. Talvolta ci sentiamo una superficie levigata che rischia di far scivolare la storia senza coinvolgimento né lacrime.
Eppure la disperazione c’è, così come la morte, gli orrori e le tragedie, sofferenze e violenze, fughe e distruzioni, innescate dall’odio e dall’avidità.
I pianti disperati dirigono i miei occhi su un grido, antico di duemila anni, che proprio in questi giorni ritorna nella memoria della Pasqua di Gesù.
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Sono le parole attinte dal libro dei Salmi. Il salmo 22 è conosciuto. Tutti e quattro gli evangelisti l’hanno utilizzato per raccontare la morte di Gesù in Croce. Il salmo parte con una grande e inquietante domanda. L’uomo sofferente chiede spiegazione a Dio di un fatto incomprensibile. È la stessa domanda che Gesù rivolge al Padre sulla Croce. Le parole segnalano un’appartenenza e una confidenza. E tuttavia Dio sembra abbandonarlo, incurante della sua sofferenza. Affiliazione e abbandono, domanda dell’uomo e silenzio di Dio.
Perché?
Il salmo descrive in modo dettagliato e vivace la condizione di un povero ammalato che si trova agli estremi. Ha bisogno urgente di aiuto: «Da me non stare lontano, poiché l’angoscia è vicina e nessuno mi aiuta…Come acqua sono versato, sono slogate tutte le mie ossa…Il mio cuore è come cera, il mio palato è arido come un coccio, la mia lingua è incollata alla gola…». Sofferente e deriso, abbandonato da Dio e dagli amici, l’uomo del salmo si appella ai ricordi: perché Dio ha agito nel passato e ora invece sembra assente?
Si confronta anche con la sua storia personale: non è possibile che Dio lo abbia fatto nascere per poi abbandonarlo. Non è possibile che Dio ami e poi distrugga, prometta e poi dimentichi. Tre volte ricorre la parola «lontano».
Non c’è scampo. O si nega Dio o ci si apre alla concezione che il suo silenzio è un diverso modo di parlare. Un linguaggio spesso ancora inesplorato. Ed è proprio così che si chiude il salmo. Nessun Dio viene a cancellare con un colpo di spugna il dolore di quell’uomo ingiustamente condannato. Nessun Padre scende a schiodare il Figlio dalla Croce (quale padre non lo farebbe invece?). Eppure di quel Dio assente, il povero uomo dice: «Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea». Eppure di quel Padre silente, il Figlio agonizzante conferma: «Io so che tu mi sei vicino e mi ascolterai».
L’arte dell’ascolto si compie come arte del respiro. Anche dell’ultimo.
«Il silenzio dell’ascoltatore, era interrotto da piccoli, impercettibili respiri, i quali dimostravano all’interlocutore che non era stato solo ascoltato, era stato accolto, come se ogni frase gli avesse aperto l’accesso a una casa in cui poteva accomodarsi a suo agio» (Elias Canetti).
L’ascolto di quel grido e di tutti i crocifissi di oggi, attraversati dal fragore delle armi, non può compiersi con leggerezza. Occorre avere tempo per fermarsi. Sostare. Indugiare. Contemplare.
«Il tempo era l’unica cosa di cui Momo fosse ricca» (Michael Ende).
Riappropriarsi del tempo di Momo come di un tempo particolare. È il tempo dell’Altro, cioè il tempo che lei dedica agli altri prestando loro ascolto. Momo se ne sta lì seduta e semplicemente ascolta. Ama. E il suo ascolto, opera miracoli: induce le persone a pensieri ai quali mai sarebbero giunte da sole.
Un ascolto capace di risorgere un Dio che ama da morire!